Ghirardato "l'amico fragile" di De Andrè
Di Carlo Pecoraro. - Per molti la figura di Fabrizio De Andrè è stata un punto illuminante. Uno spartiacque che ha tolto intere generazioni dal sentirsi orfane di quella canzone che era americana (Bob Dylan) piuttosto che francese (Georges Brassens) ossigenando la nostra cultura con una ricercatezza di contenuti e di scrittura unica.
Così quando l’altro giorno, di passaggio per Salerno prima di concedersi al pubblico di Savoia di Lucania, ho rivisto l’amico Carlo Ghirardato, ricordare la poetica di De Andrè è stato un attimo.
Chi è Fabrizio De Andrè, non c’è bisogno che qui mi spertichi a farlo con esercizi di stile inutili. Chi è Carlo Ghirardato, invece, potrebbe essere utili a tutti quelli che amano la musica di Faber e in generale amano quella sua poetica. Per dirla con un bell’articolo pubblicato dall’Unità qualche tempo fa, Ghirardato è “un cantante anarchico che fa il portiere di notte”. Io personalmente lo ritengo semanticamente, il più vicino interprete di quella eredità del cantautore genovese. Non solo sul piano musicale, Carlo e un cantante chitarrista che recupera la semplicità del primo Faber; ma lo è anche nel pensiero compositivo e di approccio alla materia sonora.
Nato in Germania, a Kassel, classe ‘62, trapiantato a Bologna e romano d’adozione la sua voce si forma nel coro delle voci bianche dell'Istituto Don Trombelli della città emiliana, al quale spesso si rivolge il Teatro Comunale quando un'opera lirica necessita di giovani cantori. In età adolescenziale intraprende lo studio della chitarra da autodidatta. Negli anni Ottanta è la voce solista della rock band C.P.AIR di cui cura i testi in lingua inglese. Piper, Smania, Teatro Tenda, Le Gambit, Black Out, Teatro Mongiovino sono i locali dove la band si esibisce, divenendo pur nella sua breve esistenza un punto di riferimento per la scena musicale della New Wave a Roma. Intraprende poi per sette anni lo studio del canto lirico sotto la guida di Maria Zunica, già collaboratrice del tenore Mario Del Monaco e del contralto Bruna Caniglia.
Nel 1998 compone una canzone “Ode al Passannante” - di qui i suoi concerti a Savoia di Lucania -, che viene ripresa come colonna sonora da un cortometraggio a cura dell'Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio, istituzione fondata dallo sceneggiatore Cesare Zavattini. Nel 2002 riprende con lena gli studi musicali, ripartendo da una sentita riproposta del canzoniere di Fabrizio De André, a tre anni dalla sua scomparsa. Nel 2005 pubblica il suo primo disco “Ora che il cielo ai bordi le ha scolpite”, dove rende un grato e limpido omaggio all’opera del cantautore genovese.
Con “l’amico fragile” non ha in comune solo la passione per la musica ma anche quella politica: Carlo è un anarchico (lavora alla redazione della rivista “Libertaria”) e la sua è una continua ricerca “ostinata e contraria” della verità. La stessa verità che c’è nel suo cantare De André. Una verità che non lo renderà certamente popolare come chiunque abbia avuto a che fare con l’eredità del cantautore (compresi i parenti). Ma che offre ad ognuno di noi una “goccia di splendore” e “umanità” di cui si è persa traccia in quella generazione, ancora in vita, di cantautori.
Tra Fossati che ha gettato la spugna, Guccini sempre più parsimonioso e De Gregori che addirittura canta “guarda che non sono io quello che stai cercando” cancellando in pochi versi quell’universo parallelo dentro il quale molti di noi avevano nuotato come in una placenta. Carlo Ghirardato è uno che ti dice: “La riproposta delle sue canzoni, piene di senso e pertanto vitali, è per me un atto d’amore per il pubblico. In qualità di interprete non mi tiro indietro dal mandarle a memoria, salendo sul palco senza testi né spartiti: come se fossi cieco. Come se fossi, e di fatto lo sono, un libero trasmettitore di suoni e parole che hanno saputo cantare il nostro passato, presente… “e poi il futuro”.
Poi c’è il Carlo Ghirardato autore. Quello che racconta in versi la storia del cuoco lucano, dell’antica Salvia, Giovanni Passannante, l’anarchico che tentò di assassinare re Umberto I nel 1878 e per questo fu condannato al carcere e la sua città, Salvia, costretta a cambiare nome. Poi c’è un omaggio alla mai dimenticata Mia Martini, una canzone che ancora una volta ne celebra la poetica, marchiata a fuoco dalla difficile relazione tra l’universo femminile e quello maschile. Un brano, dice lui “come un mio personale risarcimento (post mortem) per l’assurdo pregiudizio cui l’artista è stata sottoposta”. De Andrè e Mia Martini che è diventato un concept al quale il cantautore ha mischiato, sul palco, canzoni della stessa Mia e di Faber con intrecci che sommano e moltiplicano gli universi dei due protagonisti.
Fonte: La Città di Salerno